la traccia sulla carta e sulla tela, per divenire poi provocazione nella scultura. Questo percorso si ritrova in un suo iniziale catalogo del 1979 dal titolo «Concetto visuale». Voglio usare, per i segni in bianco e nero che occupano le pagine bianche, il termine di astratto. Sono segni astratti in inchiostro nero che frammentati danno origine a semplici visualità geometriche. Sono segni che accompagnano in un gioco figurale le parole tratte dalla Enciclica «Redemptor hominis» di Papa Giovanni Paolo II.
Il tutto è messaggio per uomini o donne, per forti o deboli, per sconfitti o vincitori. Un messaggio dove la parola è segno e il segno diviene motivazione di immagine. Rimane un volteggiante silenzio e la struttura ci porta alla riflessione. Il ritmo del segno si traduce in una dimensione spaziale fatta di parole che portano direttamente a riflessioni che travalicano la verifica del vedere.
Paolo Menon nasce nel 1950. Grafico editoriale sin dagli inizi degli anni ’70 diventa Art director di prestigiosi settimanali e mensili per circa un ventennio. Nel 1979, data della pubblicazione del citato catalogo, marcia verso i trent’anni, età in cui la sua formazione si consolida e già cerca il colpo d’ala per inserirsi in un suo mondo artistico, il mondo che ha sognato, costruito e in cui crede.
Nel 1982 diviene Giornalista professionista, ma il gusto e la passione per l’arte grafica non l’abbandona mai, anzi la sua nuova professione gli permette di restare in contatto con la carta stampata in un contributo di alta qualità. Nel 1989 esce il libro-diario del cavaliere dal titolo «Breviarium ad usum equitum».
Nel 2003 abbandona la sua attività professionale generica per dedicarsi a quella parte specialistica che riguarda la cultura del vino. E la scultura.
Per la realizzazione delle sculture, due linee da seguire: la semplicità dei mezzi per il raggiungimento delle opere e la presenza materica e fisica fino ad essere imponente, sovrastante dell’opera stessa. Niente viene nascosto, al lavoro si aggiunge la fantasia, poi tutto fiorisce: stele lignee coperte di sughero, rilievi di foglie in terracotta, biscuit di porcellana e tappi vinari, retrotele assemblate, ceramiche e centrini all’uncinetto (1). L’abilità della mano è sempre presente, guidata dalla mente sino al raggiungimento diretto con l’arte. Ma bisogna arrivare al 2004, anno in cui gli viene assegnato il Premio Bellavista Franciacorta del Ventennale, e selezionato per il Bancarella, (Bancarel'Vino, ndr) per la pubblicazione «Per vino e per segno: le più belle etichette d'autore vestono il vino italiano». E questo stesso libro si qualifica secondo tra i Venti libri da gustare al Salone del libro di Torino. Nel 2006 grande personale dal titolo «Dei Tirsi divini: rilievi di luce bronzea nel tempio onirico di Dioniso». La mostra si tiene a Valdobbiadene nella sala museale della Villa dei Cedri, una sala trasformata in un antico tempio dionisiaco ovale, sotto l’egida e con il patrocinio del Forum Spumanti d’Italia, dell’Altamarca e del Comune di Valdobbiadene. Fu una mostra epocale, sia per l’organizzazione esterna, sia per le opere, sia per la durata: sei mesi con visite aperte alle scuole e agli intenditori di arte e di vini. Una mostra che si avvalse di simbolismi acuti e profetici dell’artista che seppe utilizzare gli spazi come passeggiata nella civiltà del vino attraverso i secoli. Un cammino attraverso sculture di bronzi che sembravano sculture lignee del ’400 e legni che dovevi ben tastarli per capire che non fossero bronzi.
Nel 2009 un volume di grande formato dal titolo «Il Bello di Bacco: appunti di viaggio nelle eleganti terre enoiche dell’arte». Una valanga di notizie storicamente illustrate che toccano i vari centri del Mediterraneo, le tavole imbandite, le seduzioni del bere.
Segue nel 2010 «Oinòdes: le forme del bere ed altre che sanno di vino, ispirate alla mitologia ellenica, all’eros, alla religione, alla politica»: è una mostra personale di scultura sul tema tenutasi al Museo d'Arte contemporanea Remo Bianco in Franciacorta.
Oinòdes è una parola greca che vuol dire «che sa di vino». Vi appaiono «La fiasca del pellegrino», calici a tiratura limitata, lampade, figure, e una installazione di Tirsi ferrei: sono ritratti di personaggi della mitologia con veli e stole in tessuto, con monili e strutture in terracotta e ferro.
Ed è il Tirso, l’oggetto, l’elemento che appare spesso nelle opere di Paolo Menon. E mi pare che valga la pena fare chiarezza su questo simbolo amato ed esposto nelle varie mostre dal nostro artista.